deutsch: exit! Krise und Kritik der Warengesellschaft Nr. 17 erscheint im April 2020 - Inhalt und Editorial

Editoriale

Al più tardi dopo il crollo finanziario del 2007/2008 possiamo constatare una inversione di rotta nella strategia politica: dopo l’era della liquefazione neoliberale dei confini, si cerca ora la salvezza proprio nella ricostruzione dei medesimi. Si realizza così con sempre più forza il ritorno alla nazione o ai regionalismi. Con gli slogan «Make America great again» e «America First» Trump fa di necessità virtù visto che la superpotenza americana viene trascinata ormai da tempo verso il basso a fronte di complessi processi di declino: si approvano dazi protezionistici, si dichiarano guerre commerciali (soprattutto contro la Cina). Nonostante l’applicazione dei dazi protezionistici il debito statunitense continua però a crescere. Si tenta con sempre maggior sforzo di tenere alla larga i profughi messicani etc. Ed è chiaramente in questo contesto di re-isolamento che va collocata anche la Brexit. Il dibattito attorno ad essa fa emergere le contraddizioni che scaturiscono da questo inestricabile groviglio di economia globale e politica mondiale e dimostra come non sia affatto semplice uscire dalla globalizzazione. L’elezione di Boris Johnson lo renderà ancora più evidente.

Dappertutto nel mondo le elezioni le vincono personaggi e partiti di destra stravaganti, sgradevoli, che si appoggiano a semplici «verità»: Orban, Kaczynski, Erdogan, Duterte, Trump, Bolsonaro – e la lista si allunga di continuo. Nel frattempo Trump abbandona la Siria nelle mani di Putin e i curdi nelle fauci di Erdogan. Il sogno degli antiimperialisti – gli USA che cedono il passo e rinunciano all’interventismo – si converte in un incubo. Solo si quando in quando la guerra per procura nello Yemen tra Iran e Arabia Saudita, con le sue devastanti conseguenze, affiora nelle cronache dei nostri giornali, segnalando così un certo complesso di colpa. Scenari e problemi catastrofici sono ormai divenuti quotidiani ma fanno capolino nelle colonne dei giornali solo se la situazione assume una forma particolarmente acuta, come la condizione deprimente dei servizi sociali in Grecia di alcuni anni or sono, di cui non si sente più parlare e che nel frattempo non è certo migliorata. Sullo sfondo incombe una spaventosa crisi economica e finanziaria – come ammonisce insistentemente Nouriel Roubini – che, probabilmente, non sarà più possibile gestire con strumenti politici come accadde per la crisi del 2008 e degli anni seguenti.1 In fondo questo lo sanno tutti. Ed è per questo che la «letteratura del crollo» gode di enorme favore. Il libro di Marc Fiedrich e Matthias Weik «Il peggiore crollo di tutti i tempi. Economia politica, società. Come è ancora possibile difendere il nostro denaro» si colloca al primo posto nella lista dei best-seller di Der Spiegel.

Nello stesso tempo, oltre al problema delle abitazioni, a turbare i sonni dei contemporanei c’è anche il cambiamento climatico contro il quale si capisce benissimo che non sono più sufficienti le contromisure prese a livello nazionale, regionale o locale. Gli stessi Verdi figurano solo come un palliativo cosicché nulla debba realmente cambiare ma tutto possa essere risolto all’interno del sistema. Personaggi come Greta Thunberg si trasformano in vere e proprie star.2 In seguito al dibattito sul Me-Too il movimento delle donne si è ricostituito in tutto il mondo, esprimendo con veemenza la sua indignazione mediante scioperi e dimostrazioni, come in Argentina o in Spagna. Disordini contro i tagli ai servizi sociali fanno parlare di sé, ad esempio in Argentina. In Iran e in Cile l’aumento del prezzo della benzina o della metropolitana sono la goccia che fa traboccare il vaso; in alcuni paesi arabi si registrano proteste (la lista potrebbe proseguire ulteriormente). Scoppiano di continuo nuove agitazioni sociali che vengono «gestite» come sempre in maniera adeguata dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e di arma da fuoco (oltre cento morti in Iran).3 Il sistema dei partiti si fa sempre più inconsistente e sprovvisto di contenuto. I partiti «popolari» sono in fase di erosione, Verdi e Afd viaggiano col vento in poppa. Non solo in Germania ma anche nel resto del mondo la situazione economica sembra volgere al peggio. Adesso anche in Germania si leva a gran voce un coro che chiede la fine della politica di austerità, se non altro per stimolare la congiuntura, a prezzo, naturalmente, dell’aumento del debito statale.

Dunque è più che mai necessario comprendere le società come una struttura contraddittoria e soprattutto – ed è questo l’aspetto decisivo – nel declino del capitalismo. Il «collasso della modernizzazione» (Robert Kurz) si manifesta in condizioni anomiche, difficilmente prevedibili. Ciò che oggi appare come uno stadio e una tendenza, domani sarà già differente. Oltre alle tendenze di destra insorgono ora anche proteste impossibili da identificare pacificamente come puramente reazionarie alla maniera antitedesca (vasti settori della sinistra antitedesca sostengono oggi posizioni prossime all’AfD, soprattutto la rivista Bahamas), come si vede nei movimenti femministi e della politica di difesa del clima, che oltrepassano i confini nazionali (per quanto anche qui vi siano indubbiamente tendenze discutibili o problematiche).

Una reazione rilevante della sinistra a questa nuova situazione a partire dal 2008 è stata la riattivazione della lotta di classe, che essa considera probabilmente una delle sue categorie fondamentali, nonostante venga ripetuto in continuazione che non si tratta più delle «vecchie» classi. Gli altri problemi (sessismo, razzismo, ecologia etc.) vi sono allora inclusi come contraddizioni collaterali, suppostamente non più esistenti. Klaus Dörre4 auspica in tutta serietà un nuovo movimento sociale, sulla cui bandiera campeggi la frase «Espropriate Zuckerberg!».5 La classe precede ancora una volta l’«identità», mentre il razzismo e il sessismo appaiono come problemi secondari. Anche nei circoli femministi si arriva a compilare un Manifesto femminista per il 99% (!).6 Ci si comporta come se tali modalità di discriminazione fossero state seriamente in discussione, al di là di certe nicchie marginali, poiché negli anni Ottanta e Novanta il discorso egemonico concerneva l'ambiente, la sottocultura, lo stile di vita e l'individualizzazione. Si diffonde un marxismo (volgare) della personalizzazione, che vede il nemico nei capitalisti, negli speculatori e negli investitori, il che implica certamente un antisemitismo strutturale.7

Nel dibattito sulla post-crescita tutti i possibili concetti esistenti vengono gettati in un unico calderone e cotti in un’unica pietanza: democrazia economica, economia solidale, partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa etc. Chiaramente una poltiglia indigeribile. Suscita consenso anche l’idea di un nuovo «Green New Deal» come dimostrano le relative pubblicazioni, ad esempio di Jeremy Rifkin e di Naomi Klein. Anche la presidentessa della Commissione Europea von der Leyen si esprime a favore di un «Green Deal».

Alla concentrazione e alla discussione sulla «Nuova lettura» di Marx, il feticismo8 e su un discorso secondo cui «il capitalismo è ormai giunto al capolinea»9 fa ora seguito la concentrazione sulla «nuova» questione di classe.10 Manca una prospettiva sul feticismo, secondo la quale il feticcio ingloba i lavoratori così come i capitalisti. Oggi chiunque si sente minacciato esternamente dal capitale non importa fino a che punto abbia simpatizzato con Schroder, condotto un’esistenza «trendy» e scoperto le azioni per sé nel corso degli anni Novanta. Tutto questo indica che tutto deve trovare soluzione nella critica del valore/dissociazione. Il problema di fondo della situazione odierna è stato formulato nei suoi tratti essenziali nel discorso di Greta Thunberg ai politici: «Come osate?» - cui i politici rispondono adesso invitandola a cercare per prima le risposte pratiche ai problemi che pone. In effetti sono tutti contro il cambiamento climatico (a parte l’AfD e i suoi): imprenditori, politici, la famigerata società civile.

Affiora così un senso di impotenza che accomuna la politica e l’economia nel risolvere questo problema nel quadro del sistema di riferimento feticistico: tassa sull’emissione di CO2, divieto di utilizzo dei motori Diesel e misure analoghe hanno qui semplicemente un carattere simbolico. Ciò che necessita è una trasformazione fondamentale del modo di vita e di produzione, così come delle corrispondenti strutture di bisogno, oltre la logica della classe lavoratrice o capitalistica. In linea di principio lo sanno anche i bambini. Lo sanno ma continuano, nonostante tutto, a farlo, verrebbe da dire con le parole di Zizek, anche se in un senso completamente diverso da quello che egli intende (si veda a questo riguardo l’articolo sul «marxismo lacaniano» di Roswitha Scholz in questo numero). Ai dibattiti sulla dittatura ecologica, che imperversano per il mondo, si dovrebbe contrapporre l’idea di Marcuse circa i falsi bisogni generati sotto il capitalismo e sulla loro soddisfazione sostitutiva, poiché non può esistere una società liberata che non produca bisogni e strutture di bisogno differenti. Le risposte che attualmente vengono offerte non rendono in alcun modo giustizia al carattere drammatico dello sfacelo dei rapporti capitalistico-patriarcali.

Invece di insistere per cambiamenti radicali alla luce della critica del feticismo, ci si produce in pseudo-discorsi. La sinistra saltella sul posto e non genera più da decenni nulla di nuovo. Di utopie in saldo e di istruzioni per l’uso c’è solo l’imbarazzo della scelta. Dagli anni Settanta le risposte sono sostanzialmente sempre le stesse. Cambiamenti radicali non vengono realmente messi in preventivo. Certo, è stato sviluppato un piccolo discorso sulla critica del lavoro, che però rimane anch’esso nel quadro sociale prestabilito, scevro da ogni effettiva trascendenza.11

Il grave trauma del collasso del blocco orientale non è stato minimamente elaborato. E con esso la fine della socialdemocrazia, il fallimento del movimento degli alternativi, del movimento delle donne, del movimento ecologista etc., che avevano tutti contribuito a creare il «nuovo spirito del capitalismo» (Boltanski e Chiapello). Sena dimenticare inoltre la disfatta degli esperimenti di governo della sinistra in America Latina (Venzezuela, Bolivia). Assistiamo semplicemente alla rievocazione dei temi corrispondenti, il revival delle rispettive illusioni (democrazia economica, economia solidale, reddito di base via dicendo), contrabbandate adesso come idee radicali, in grado di oltrepassare il sistema. Una inconfessata «malinconia di sinistra» (Walter Benjamin, Wendy Brown, Enzo Traverso) si rifugia così nelle ideologie retrospettive, in cattivi utopismi e nell’attivismo, che non hanno davvero nulla da contrapporre alla negatività del reale e non possono che rivelarsi privi di effetto. Dopo la fine ingloriosa della socialdemocrazia la soluzione di tutti i problemi dovrà essere necessariamente una «ipersocialdemocrazia». Il fatto che la socialdemocrazia non sia mai stata altro che un motore dello sviluppo del capitalismo (soprattutto nel fordismo) rimane nell’ombra e una sua riedizione «verde» sotto l’egida di un precario capitalismo finanziario, di processi di razionalizzazione sempre più spinti, della concorrenza internazionale, degli intrecci di capitale etc. (che adesso anche la destra vorrebbe ostacolare), non è più possibile.12

Al presente un’euforia movimentista sembra caratterizzare ancora una volta la sinistra; pessima carte ha quindi da giocare adesso la teoria, che non si pone al servizio di esigenze pratiche immediate e che invece si occupa delle questioni qui sollevate. Come è logico non si può lasciar perdere proprio tutti, inchinandosi al dettato della finanziabilità (affitti, Hartz IV etc.), è irrinunciabile, ad esempio, un impegno concreto contro il razzismo e l’antisemitismo, il neofascismo etc. Occorre però evitare ogni astratta ipostatizzazione della prassi e riflettere invece sulla cornice di riferimento sociale e storica. È necessario tenere conto della necessità dell’astrazione del valore/dissociazione e puntare lo sguardo sulla famigerata totalità, anche per, eventualmente, osservare con lungimiranza fino a che punto le azioni e i movimenti stiano lavorando per l'affermazione di un regime di gestione della crisi. Bisogna naturalmente identificare quei movimenti che presentano momenti trascendenti, così da prendere contatto e, se possibile, ampliare il loro orizzonte intellettuale nel senso di una critica della sintesi sociale. In questo senso è senz’altro possibile sfruttare spazi pratici di manovra per migliorare la condizione attuale. Alla fine non viviamo più nel «mondo amministrato», come ancora ai tempi di Adorno, ma nell’epoca del «collasso della modernizzazione» (Robert Kurz). Non si tratta però in alcun modo di rincorrere i movimenti. Distanza critica, elaborazione teorica e una discussione della forma sociale assumono oggi una particolare importanza visto che il mainstream della sinistra ritiene che tutti i problemi complessi possano essere risolti all’interno di questa forma mentre all’ordine del giorno ci sono solo pseudo-soluzioni. In opposizione alla «Nuova lettura» di Marx il problema non consiste nell’esegesi di Marx sul piano dell’analisi formale e filologica ma di comprendere i concetti di Marx come astrazioni reali, ponendoli in relazione con le mutazioni reali della società mondiale. Questo significa anche riconoscere che la politica e la soggettività (politica) si trovano ormai da decenni in fase di erosione. Le teorie postmoderne ne sono state l’espressione. Anche se le relazioni solidali sono molto importanti, non da ultimo nel rigenerato movimento delle donne, non è proprio il caso di proclamare in maniera anacronistica, nello stile agit-prop, un nuovo soggetto politico «donne» (ce ne si occuperà più in dettaglio in un prossimo articolo). Proprio una comprensione della teoria critica del valore/dissociazione ci consente di inserire processi e movimenti sociali all’interno di un continuum sociale, storico e temporale più esteso, invece di assumere una prospettiva riduzionistica, che gode di favore in un’epoca movimentista: coinvolgimento ed immediatezza, cui segue spesso una fase di disillusione dopo qualche anno, in cui si adeguano le proprie rivendicazioni e i propri contenuti ai limiti imposti dal sistema (si pensi, ad esempio, al femminismo di Stato). L’impulso a «dover fare realmente qualcosa» trascura il fatto che anche l’elaborazione teorica stessa è una prassi specifica nella totalità sociale, che può servire ad una prassi di cambiamento sociale solo se non si abbandona a un feticismo della prassi, identificandosi con essa.13 Questo accade nel momento in cui ci si avvicina alla prassi con un atteggiamento anti-teoretico, senza voler sapere nulla di un indispensabile cambiamento radicale e ci si accontenta di un falso status quo immediato, comunque insostenibile. All’insistenza negli ultimi trent’anni su di una posizione queer e postcoloniale, cioè su di una prospettiva basata sull’assenza di distacco e sull’interesse particolare, sembra seguire adesso, momentaneamente, un orientamento di classe (non solo femminista) del presunto 99% che pretende di sostituire sotto questo riguardo le teorie e le ideologie postmoderne. Con una tale definizione della questione sociale affiora sempre più un’esigenza di «normalità» di stampo piccolo-borghese, di schierarsi per le masse, senza fare comunella con gli altri emarginati e discriminati per quanto, a parole, si pretenda di includerli. Nel frattempo ci si è apparentemente dimenticati che la questione della donna e dell’«altro» vengono oggi percepiti come una contraddizione collaterale. Si dà il caso però che le donne e i migranti siano coinvolti al massimo grado nella «questione sociale». Essere inadatto alla prassi, superfluo e marginalizzato e per giunta incapace di esprimersi è pertanto il crimine peggiore. Alle teorie postmoderne andrebbero contestate la versione culturalistica di questa discriminazione e la loro fissazione sulla «politica dell’identità». Come tali le esperienze spezzate nel contesto di una totalità storica della società globale, al di là delle insulse assunzioni postmoderne sulla «contaminazione», andrebbero consolidate nel declino e anche elaborate. Altrimenti vengono a mancare i potenziali di comprensione all’interno di un sistema feticistico autoreferenziale che co-costituisce uomo e donna (che a loro volta contribuiscono a costituire). Si potrebbe dire maliziosamente che l’esperienza come tale non è poi così importante per chi compie realmente esperienze essenziali (la rivista Outside the Box ha per tema del suo numero attuale proprio l’«esperienza»).

Anche negli ambienti della critica del valore era già vivo l’impulso verso la prassi e il ricongiungimento con le esperienze immediate. Economia solidale, Commons e Open Source: erano queste le parole d’ordine.14 Nel frattempo però nulla si è più coperto di ridicolo dell’ideologia Open Source. La libertà nella rete si è limitata a creare lo spazio soprattutto per il risentimento, per il qualunquismo e la trivialità mentre l’ideologia del dono è sfociata in Uber.

Il contesto di Exit!, e con esso Claus Peter Ortlieb, morto il 15 settembre 2019, al quale dedichiamo un ricordo postumo, si è sempre ribellato a tali tendenze, mantenendo sempre le distanze dalle (più recenti) costruzioni «teoriche» di Krisis. Pertanto appare più che problematica l’idea di impossessarsi di Ortlieb in un ricordo di Krisis, apprezzando il suo testo «Una contraddizione tra materia e forma», come è stato fatto sfrontatamente sulla Krisis-Homepage (krisis-online.org del 10 ottobre 2019). Nel suo testo Ortlieb metteva in risalto l’importanza del plusvalore relativo per questa contraddizione che Trenkle non aveva considerato, ad esempio nel suo dibattito con Heinrich, e che fino ad oggi non gioca alcun ruolo decisivo per Krisis. Egli aveva speso parole eloquenti contro Streifzuge e Krisis anche sotto altri riguardi.15

Ci rivolgiamo ai lettori e alle lettrici di Exit! pregandoli di sostenere i nostri sforzi teorici che, come sempre, non possono essere esclusivamente il risultato di aspirazioni pratiche immediate, non si piegano alle restrizioni dell’industria accademica di sinistra, non hanno per movente progetti di carriera, né hanno di mira i conformismi e gli atteggiamenti meschini della scena politica. Più che mai oggi si sente il bisogno di intellettuali che, sul piano dei contenuti e su quello istituzionale, «metodico» e «metodologico», invece di correre sulla ruota come criceti accademici, al prezzo dell’ingabbiamento o del deperimento intellettuale, mettano a fuoco la società (globale) come un intero, allontanandosi dai sentieri già battuti. Senza di essi non ci sarà nessuna autentica critica sociale radicale. Ormai da anni, se non da decenni, nelle antologie e nei congressi si incontrano sempre le stesse figure con i loro studenti di dottorato. Sono alla mercé di un sistema universitario sempre più precario cui si aggrappano – devono farlo – con tanta più forza in quanto fonte di sostentamento potenziale secondo il motto: «Meglio non mordere la mano che ti nutre».

La critica del valore (e della dissociazione) ha indubbiamente goduto nel passato di una piccola congiuntura favorevole ed è stata ripresa anche nei testi e nei riferimenti della sinistra, arrestandosi subito però laddove viene toccato un nodo cruciale, ossia non appena si pone radicalmente in questione la forma capitalistico-patriarcale della società. Anche questa fase sembra però essersi conclusa e così si registra di frequente la riconversione a un marxismo paleolitico, soltanto un po’ modificato. Dopo anni di postmodernismo con la sua «paralisi frenetica» (Paul Virilio), che ha evidenziato sempre di più la forma vuota del valore basata sulla separazione del femminile, oggi si avverte sempre di più il bisogno di «stabilità», di «identità», di un’immagine chiara del nemico per identificare individui e gruppi come responsabili della miseria, etc: si deve poter suddividere nettamente il mondo ancora una volta in senso logico-identitario, in alto e basso, amico e nemico, bene e male, mentre il non-identico ha da essere ignorato. È così che si prepara il pogrom sul piano intellettuale. Ed è così che si esprime la «nuova serietà» dopo la fine della giocosa postmodernità. Anche gli articoli del presente numero di Exit! si collocano logicamente nel contesto di questa critica.

Con «Semaforo verde per il caos della crisi» di Robert Kurz viene riproposto un testo già pubblicato in un’antologia del 1994. Il saggio ha per oggetto la follia automobilistica. Kurz vi delinea la genesi storica dell’imposizione del trasporto individuale e dimostra come la responsabilità di questa imposizione sia essenzialmente dell’irrazionalità del modo di produzione capitalistico. Kurz richiama l’attenzione sulle conseguenze distruttive. Inoltre sottolinea come il trasporto individuale, l’«auto», non sia mera tecnica, ma vada di pari passo con uno specifico modo di vita. Non da ultimo il «cane da combattimento laccato» serve alla «mobilitazione totale» della merce forza-lavoro e, come oggetto di consumo, è intriso di contenuti simbolici: questo rende la follia automobilistica anche una follia maschile.

Va detto inoltre che per Exit! 18 è già stato pianificato un commento a questo testo che lo attualizza e prende di mira i più recenti sviluppi della follia automobilistica (vetture senza conducente, mobilità elettrica), tenendo conto della catastrofe climatica da tempo in corso.

Sono ormai molti anni che Žižek è uno dei più influenti intellettuali di sinistra. Quando si annuncia che si sta scrivendo qualcosa su Žižek, la reazione è sempre di incomprensione. L’uomo è confuso, vuoto, polemico, talvolta viene addirittura liquidato come un ciarlatano e un incantatore di serpenti, cosicché sfugge a qualsivoglia criterio. Ci si chiede allora come possa godere allo stesso tempo di un reputazione così elevata, perché riceva tanti inviti e la gente accorra in massa alle sue iniziative. Perché pubblica per case editrici come Suhrkamp e Fischer e viene considerato una «star della filosofia»? Nel testo di Roswitha Scholz «Il capitalismo, la crisi … il sofà – e il tramonto del patriarcato capitalistico. Osservazioni critiche sul marxismo lacaniano di Slavoj Žižek e di Tove Soiland16» si cerca principalmente di criticare la teoria di Žižek e il suo pregiudizio androcentrico nella prospettiva della critica del valore/dissociazione ma anche si mettere il luce, perlomeno sotto alcuni aspetti, il suo ruolo come figura-cardine nella transizione dalla postmodernità ad un’epoca di autoritarismo anarchico, che si accompagna nei suoi scritti a riferimenti semi-ironici a Lenin e Stalin. La cosa davvero sconcertante è però che Tove Soiland, la cui impostazione è anch’essa tema di discussione, come preannunciato dal titolo, ignora questi aspetti di Žižek ma cerca di mettere a frutto in maniera acritica le sue idee per un «marxismo lacaniano» femminista.

Nel contributo di Thomas Meyer «Sulla persistente miseria del positivismo – Poscritto tardivo all’“affare Sokal”» viene ripreso il cosiddetto «caso Sokal». Più di vent’anni or sono il fisico Alan Sokal rifilò ad una rivista poststrutturalista un articolo fasullo, scritto nel gergo tipico di quell’ambiente, cosicché nessuno si rese conto che tale articolo era solo una burla. Meyer dimostra come Sokal nella sua critica contro l’assurdità postmoderna si mantiene su di un livello superficiale e non ha molto altro da offrire se non ordinario positivismo. È quindi molto distante dalla critica della «oggettività incosciente» (C. P. Ortlieb). Più avanti Meyer si cimenta con la critica di Sokal alla critica femminista della scienza, dimostrando come Sokal, a causa del suo androcentrismo e della sua incapacità di oltrepassare i limiti del positivismo, non comprende o non è disposto a comprendere gli aspetti essenziali della critica femminista della scienza, cosicché non può far altro che liquidare femministe come Evelyn Fox-Keller in termini grossolani. Questo metodo – che consiste nel far emergere manchevolezze nella scienza accademica, propinando a presunti idioti articoli fasulli, così da «dimostrare» come i rispettivi settori scientifici non producano altro che insulsaggini – continua ancora ai giorni nostri. Esso appare problematico – come sottolinea Meyer – dal momento che ogni specie di populismo di destra tuona oggi contro l’insensatezza non-scientifica dei Gender Studies e cose del genere, che quindi dovrebbero essere soppressi e proibiti. La redazione di articoli fraudolenti può così riallacciarsi alla propaganda del populismo di destra o del neofascismo, come dimostra non da ultimo la soppressione dei Gender Studies in Ungheria.

Il contributo di Leni Wissen ha per oggetto la «storia dell’assistenza per i poveri». Il «lavoro» come forma di attività centrale nel capitalismo implica una relazione peculiare con il non-lavoro. Il rapporto tra «lavoro» e «non-lavoro» è quindi determinante per la strutturazione dei rapporti sociali. Questo si rispecchia nella maniera in cui ci si relaziona alla povertà, come dimostra uno sguardo alla storia dell’assistenza per i poveri. Con la nascita della società basata sul valore e la dissociazione prese piede la distinzione tra poveri dignitosi, ossia lavoratori, e indegni, ossia non-lavoratori, e questo contribuì a plasmare in maniera decisiva lo sviluppo delle nascenti strutture dello Stato assistenziale. La storia dell’assistenza per i poveri è strettamente intrecciata alla storia dell’odio nei confronti degli zingari. Infatti nell’odio verso gli zingari discriminazione sociale e razzista sono indissolubilmente legate. Di fronte alle tendenze generali all’imbarbarimento sulla scia della dinamica di crisi postmoderna del capitalismo l’«odio strutturale verso gli zingari» sembra idonea come elaborazione della crisi per un ceto medio in pieno declino, e andrebbe interpretato anche come un effetto di fondo per la ristrutturazione dello Stato sociale nel capitalismo decadente, come Wissen dimostra in maniera esemplare nel caso dello «Stato sociale attivante»17 in Germania.

Andreas Urban si occupa nel suo contributo alla storia delle case di riposo per anziani come istituzione moderna. In questo egli si riallaccia direttamente alla tesi da lui stesso sviluppata in un precedente articolo (in Exit! 15) di una «superfluità» capitalistica degli anziani (come base di una ostilità strutturale delle moderne società nei confronti degli anziani) – una superfluità che si oggettiva in termini materiali, in maniera particolarmente significativa, nella casa di riposo. Egli dimostra come la casa di riposo, sia sul piano storico che su quello logico, rappresenta un’istituzione per la custodia degli anziani come «improduttivi» e «superflui». Questa funzione risulta valida ancora oggi, nonostante i numerosi cambiamenti superficiali che le case di riposo hanno subito nel corso dei decenni passati. Lo si può vedere soprattutto nel fatto che la segregazione spaziale e sociale e la reclusione effettiva di anziani e bisognosi di cure costituisce ancor oggi l’essenza stessa delle più confortevoli ed accoglienti case di cura e residenze per anziani. Inoltre la cura degli anziani (non solo, ma soprattutto, quella istituzionale) obbedisce al calcolo economico costi-benefici, così come alle logiche temporali risultanti dalla struttura capitalistica basata sul valore e sulla dissociazione. In questo senso il contributo offre anche alcune osservazioni critiche su fenomeni e tendenze, oggi discusse nella scienza e nell’ufficialità mediatica sotto le etichette dello «stato di emergenza della cura» e della «crisi dell’assistenza» come ad esempio la progressiva riduzione dei costi del sistema assistenziale, condizioni inaccettabili nel lavoro di cura, negligenza e violenza nei confronti dei bisognosi di assistenza etc.

Anche le Chiese sono risucchiate nel vortice della crisi. Sul piano economico questa crisi si manifesta nella crisi delle loro risorse finanziarie, destinate a volatilizzarsi a lungo termine e, sul piano sostanziale e simbolico, nella perdita della loro rilevanza sociale e politica. All’ordine del giorno per le Chiese, proprio come per i settori «mondani», ci sono le «riforme». Il testo di Herbert Böttcher «Verso una “chiesa imprenditoriale” sulla strada della (post-)modernità pericolante» mostra come le Chiese non intendano riformarsi per opera dello «Spirito Santo» bensì dello «Spirito del capitalismo». Cercano consiglio nei concetti dello sviluppo organizzativo, che operano sulla base della teoria dei sistemi. In quanto imprese le Chiese mirano a riprendere contatto con il loro ambiente, ponendosi così «all’altezza dei tempi». Ne risulta un processo di adattamento ad una società (post)moderna in crisi, che sta precipitando in caduta libera. In gioco non c’è però solo un mero adattamento organizzativo. Questo può essere di giovamento solo se i prodotti religiosi e pastorali sono competitivi sui mercati dello spiritualismo esoterico e soddisfano le necessità della loro clientela. Occorre raggiungere gli individui nel loro «quotidiano» e nei loro «spazi sociali». Senza alcuna riflessione sulle strutture di mediazione sociale gli individui stressati e depressi sotto la pressione della crisi devono essere raggiunti e si deve provvedere affinché si sentano bene, o comunque meglio, in seno ai loro rapporti. I prodotti religioso-esoterici offerti non sono da valutare in relazione alla loro pretesa di verità quanto piuttosto alla loro utilità. Inoltre le Chiese dovrebbero rappresentare un rifugio anche per coloro che sono alla ricerca di un senso e di un’identità di fronte al «relativismo» della postmodernità. Alla luce di questa costellazione di problemi le Chiese si aprono ad un pensiero e ad un agire identitario e autoritario. Tutto questo non può lasciare indenne i contenuti della tradizione giudaico-cristiana. Questi vengono individualizzati, assumono un carattere esoterico e devono quindi essere garantiti in termini esistenzialistici e/o nell’oggettività di «verità eterne». A farne le spese sono gli elementi emancipatori della tradizione giudaico-cristiana, basati su di una distinzione tra trascendenza e immanenza, acutizzata nel senso della critica del dominio.

Il contributo di Gerd Bedszent «La marcia verso la barbarie ovvero l’Est come spauracchio» tratta dell’euforia mediatica per il trentesimo anniversario della cosiddetta «caduta del muro», ma anche della violenza dell’estremismo di destra che imperversa soprattutto nelle regioni lasciate a se stesse della Germania Orientale. Bedszent cita alcuni testi più vecchi di Robert Kurz e analizza i legami tra questi due fenomeni. Dopo il 1990 venne inferto il colpo di grazia alla maggior parte delle industrie tedesco-orientali – già a mal partito nella concorrenza con le più forti economie politiche occidentali e che si trovavano in fase di declino. In seguito alla deindustrializzazione di intere regioni furono milioni gli individui che persero i loro posti di lavoro; altrove pensarono l’«assottigliamento» degli apparati amministrativi così come l’annientamento di gran parte del panorama culturale ad una durevole interruzione di carriera. Da un lato alcuni settori della popolazione tedesco-orientale vengono celebrati dai media come eroici, dall’altro però le stesse persone vengono frequentemente messe da parte come «superflue» sul piano economico e questo fatto costituisce il brodo di cultura per numerose strampalate teorie della cospirazione, non di rado, dal tenore antisemita. Tuttavia l’ondata attuale di estremismo di destra ha la sua causa strutturale – come Bedszent scrive in riferimento a Robert Kurz – nella crisi finale del sistema della merce. Come assurda reazione a questa crisi i politici della destra esigono a gran voce un rafforzamento delle istituzioni dello Stato nazionale, che essi stessi contribuiscono ad indebolire con i loro programmi di politica economica.

Sono stati pubblicati inoltre i seguenti libri e antologie: le due parti di Die Substanz des Kapitals di Robert Kurz (Exit! 1 e 2) sono state tradotte in francese La substance du capital, Parigi 2019; una raccolta di articoli di Roswitha Scholz: Le Sexe du capitalisme – «Masculinité» et «féminité» comme piliers du patriarcat producteur de marchandises, Parigi 2019; è uscita la prima edizione della rivista francese Jaggernaut – Crise et critique de la société capitaliste-patriarcale, che contiene (tra l’altro) traduzioni di testi di Robert Kurz e Roswitha Scholz. Il libro La guerra dell’ordine mondiale di Robert Kurz è stato tradotto in portoghese ma purtroppo solo alcune sue parti saranno pubblicate dalla casa editrice Antigona (Lisbona) (il testo completo lo si trova in https://exit-online.org/pdf/A_Guerra_de_Ordenamento_Mundial-Robert_Kurz.pdf). Una storia della critica del lavoro nel pensiero francese moderno, da Charles Fourier a Guy Debord a cura di Alastair Hemmens è stata pubblicata in inglese da Palgrave Macmillan, 2019 e, simultaneamente, in francese: Ne travaillez jamais, Albi 2019; La société autophage – Capitalisme, démesure et autodestruction di Anselm Jappe è stata pubblicata in spagnolo, La sociedad autófaga, Logroño 2019. Les aventures de la marchandise in italiano: Le avventure della merce – Per una nuova critica del valore, Roma 2019. Una collezione di testi di Claus Peter Ortlieb è stata pubblicata da Schmetterling-Verlag: Zur Kritik des modernen Fetischismus – Die Grenzen bürgerlichen Denkens, Stuttgart 2019. Di Raimund G. Philipp è usicto il libro Die Geschichte Chinas als Geschichte von Fetischverhältnissen – Zur Kritik der Rückprojektion moderner Kategorien auf die Vormoderne: ausgehendes Neolithikum, die drei Dynastien, Darmstadt 2019.

Daniel Späth und Patrice Schlauch sono usciti dalla redazione.

 

Roswitha Scholz per la redazione di Exit!, dicembre 2019.


  1. Vedi, ad esempio «Wir erleben eine Balkanisierung des Welthandels», handelszeitung.ch del 2/9/2019. ^

  2. Da cui l’enorme odio di cui Thunberg è oggetto, cfr. ad es. Hinz, E./Meyer, L. P., Gegenwind für die Klimabewegung, akweb.de del 12/11/2019 oppure Analyse & Kritik Nr. 654. ^

  3. Secondo Amnesty International. Il numero delle vittime potrebbe essere molto più elevato come sostiene un reportage di France 24 Observers: https://observers.france24.com/en/video/iran%E2%80%99-hidden-slaughter-video-investigation-france-24-observers. ^

  4. Klaus Dörre è un sociologo e politologo tedesco vicino al movimento ATTAC! (NdT) ^

  5. In: Ketterer, Hanna; Becker, Karina (a cura di): Was stimmt nicht mit der Demokratie? – Eine Debatte mit Klaus Dörre, Nancy Fraser, Stephan Lessenich und Hartmut Rosa, Frankfurt 2019, 20. ^

  6. Fraser, Nancy et. al.: Feminismus für die 99% – Ein Manifest, Berlino 2019. ^

  7. Così, ad es., Paul Mason in una intervista: FR-online.de del 28/9/2019. ^

  8. Cfr. Scholz, Roswitha: Fetisch Alaaf! – Zur Dialektik der Fetischismuskritik im heutigen Prozess des ›Kollaps der Modernisierung‹ – Oder: Wie viel Establishment kann radikale Gesellschaftskritik ertragen?, in: exit! – Krise und Kritik der Warengesellschaft Nr.12, Angermünde 2014, 77–117. ^

  9. Cfr. a questo riguardo l’editoriale di exit! Nr. 14. ^

  10. Cfr. Meyer, Thomas: »Neue Klassenpolitik«? – Kritische Anmerkungen zu aktuellen Diskursen, 2019, su exit-online.org. ^

  11. Ad esempio nel documentario del 2012 Frohes Schaffen – Ein Film zur Senkung der Arbeitsmoral von Konstantin Faigle e in diversi libriad es. Spät, Patrick: Und was machst du so? – Fröhliche Streitschrift gegen den Arbeitsfetisch, Zurigo 2014. ^

  12. Cfr. Kurz, Robert: Das Weltkapital – Globalisierung und innere Schranken des modernen warenproduzierenden Systems, Berlino 2005.

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  13. Cfr. a questo proposito anche il testo di Robert Kurz: Grau ist des Lebens Goldner Baum und grün die Theorie – Das Praxis-Problem als Evergreen verkürzter Kapitalismuskritik und die Geschichte der Linken, in: exit! – Krise und Kritik der Warengesellschaft Nr. 4, Bad Honnef 2007, 15–106. ^

  14. Cfr. Kurz, Robert: Der Unwert des Wissens – Verkürzte «Wertkritik‹ als Legitimationsideologie eines digitalen Neo-Kleinbürgertums, in: exit! – Krise und Kritik der Warengesellschaft Nr.5, Bad Honnef 2008, 127–194, anche su exit-online.org. ^

  15. Si veda ad es.: Zur Spaltung der Krisis-Gruppe: Erklärung ehemaliger Redaktions- und Trägerkreismitglieder, 11/4/2004; Ortlieb, Claus Peter: Die Sinnlichkeit des MWW, 13/7/2009; entrambi su exit-online.org.

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  16. Tove Soiland è una storica e filosofa che si occupa della teoria femminista nel suo rapporto con l’economia politica, il marxismo e la psicoanalisi (NdT). ^

  17. Per «Stato sociale attivante» [aktivierender Sozialstaat] si intende una „filosofia“ organizzativa dello Stato sociale basata sull“investimento“ di risorse pubbliche nelle potenzialità di auto-aiuto e di responsabilità personale dei marginalizzati (disoccupati di lungo periodo, devianti, persone con problemi psichici). (NdT) ^